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di Filippo Ravizza

• tratto da Gradiva, n.58/2020

« Quello che colpisce, sin dall'inizio e viene confermato durante tutta la lettura del libro è la capacità di Vincenzo Di Maro di instaurare e mantenere incessantemente un'alta tensione lirica basata su un niveau alto e denso, pluristratificato, ottenuto (e qui sta la maestria) attraverso un dettato che comunque è e vuole essere anti-lirico. Che il dettato di questo autore sia anti-lirico ce lo comunicano i versi più che liberi; versi sciolti, apparentemente sempre sul punto di "rompere" il proprio ritmo verso la prosa poetica, complice anche la quasi totale assenza della rima, tanto a fine verso, quanto interna.

In alcune pagine questa tensione verso la prosa poetica raggiunge completamente il proprio telòs (ad esempio 'Ceci n'est pas la vie', il testo di pagina 14, o 'La tomba di Caino’, testo di pagina 22, o ancora 'III: alle bocche del Rodano', pagina 30, e altri testi ancora lungo il percorso sino alla stessa prosa eponima della raccolta, situata a pagina 70). Infine, prima di addentrarci nel contenuto di questo libro, vorrei dire ancora della chiara capacità di detta scrittura di situarsi nell'ambito della cosiddetta "poesia filosofica" anche, ma senza mai deragliare verso il saggio, mantenendosi con sicurezza nella dimensione letteraria.

"Una stagione nascosta" è un viaggio, un viaggio iniziatico intorno alla natura delle cose, del mondo e dell'uomo che il mondo osserva e tenta di decifrare, interpretare. Un viaggio compiuto, mi verrebbe da dire, con e grazie ad alcuni "spiriti guida", alcuni "maestri" che ci hanno preceduto nel tentativo di penetrare il grande enigma dell'essere e delle cose, della natura e del mondo. Questo cammino tra tenebra e luce, questo tentativo di scendere nella profondità delle cose grazie ad una rinnovata profondità delle parole è un percorso tripartito: "Tavole della sorte", si chiama la prima sezione, seguita da "Lunario scritto sull'acqua" e da "Una stagione nascosta", i tre capitoli in cui si suddivide la raccolta.

Un cammino concettuale sulla falsariga delle riflessioni alchemiche ed iniziatiche relative al passaggio dalle tenebre dell'ignoto alla luce di una sia pur parziale e umanamente incerta conoscenza. Non a caso credo il libro parta dalle profondità splendenti (uno splendore custodito dalle tenebre) dei dipinti parietali del 18.000 avanti Cristo delle grotte di Lascaux in Dordogna, e prosegua (seconda poesia del volume, pagina 14) ponendo subito la questione fondamentale dell'autenticità attraverso un'affermazione-parodia della famosa dicitura di un quadro di René Magritte: "Ceci n'est pas une pipe", tramutato dal nostro autore in "Ceci n'est pas la vie", "questa non è la vita", appunto; la scrittura non è la vita tanto quanto la pipa di Magritte non è una pipa. La pipa e la vita non vengono raggiunte dall'immagine e dalla scrittura, ma forse proprio per questo immagine e scrittura hanno il potere arcano di descrivere e costruire la vita e le cose.

Poi arrivano le guide, i mèntori del viaggio di Di Maro: Arthur Rimbaud intercettato dal nostro autore nel suo soggiorno yemenita ad Aden (1880 e seguenti) e poi in quello africano ad Harar (vi passerà tre distinti periodi : l'ultimo nel 1891, l'anno del suo rientro in Francia e della sua morte). Il Rimbaud anche de "La lettera del Veggente", alla ricerca dell'Altro, dato che "Je est un autre", "Io è un altro"; dato che l'Io è indifeso di fronte al pensiero che è un flusso che esce spontaneo dalle profondità, si "schiude da solo" e noi possiamo solo osservarlo, ascoltarlo. Compare poi Vincent Van Gogh, fermato alle bocche del Rodano, in quel 1888 trascorso ad Arles alla ricerca "del colore puro" con cui tentare di esprimere "le terribili passioni degli uomini".

Altri compagni di viaggio di Vincenzo Di Maro (e dei suoi lettori) da citare sono Marina Ivanovna Cveteva (1892-1941, si veda la poesia "Marina, non dove... a pagina 46) e Albrecht Durer (1471-1528) a cui sono dedicate due poesie "Melencolia, 2" (pagina 47) e "A.D. Melencolia 1" (pagina 49). "Mi parlavi di Durer, che ritrasse/ mete perse, che un giorno afferreremo.// Vedremo i fiumi come sono: nasse/ o comete d'un diverso sentire, di più alte/ stazioni della notte" dice Di Maro in "Melencolia 2", e in "Melencolia 1": "Scruta questa testura dentro l'ombra/ e la semenza/ da cui germogli e cadi./ Scrutale entrambe, fino a sparizione./ Pratica il cerchio,/ inscrivi la tua pena./ Aspetta./ Adesso osservala./ E' perfetta.// »

Queste citazioni, solo due tra decine di uguale densità, mi permettono però di sottolineare in chiusura uno degli aspetti centrali del libro: il suo non arrendersi ad una possibile vittoria delle tenebre oscure dell'enigma del nostro essere, l'enigma che noi siamo. Ecco questo libro tutto intriso della dialettica luce/ombra accetta in pieno la tragedia dell'esistenza, la guarda con occhi asciutti e lucidi: "Eludere illusione e sconforto, trovare varco in quello stretto nulla" (pagina 70). E se anche (sempre a pagina 70) "fosse questa evidente inutilità a generare l'assurda fiducia in un'anima eterna, a impedirgli di resistere a un senso, alla speranza di un dopo?" Se anche fosse così se anche ogni nostra illusione fosse destinata allo scacco, l'alta consolazione della ragione e della conoscenza fa sì che (sempre a pagina 70) "La sera prima di dormire" ci sia "una bella pace inaspettata".

L'ultima poesia di questo libro (pagina 76), breve intensissima dichiarazione d'amore per la città di Milano, vista come luogo che "dà spazio all'ingannevole evoluzione", al sia pur difficile e contrastatissimo svelamento della luce della ragione, serve a ribadire una volta ancora, ma per sempre, questa connotazione forte del pensiero di Vincenzo Di Maro: "Ma tienimi entro questa/ memoria possibile, tanto dolente / quanto più illusoria. Nel breve strazio/della giovinezza". »

 

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Una stagione nascosta
15,00€ 14,25€

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